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Ordine nel caos, una bella scoperta

Caffè Ophrys              via Nole 52, Torino               fino al 27 luglio 2024

Il titolo è cambiato ma la sostanza di questa rispetto ad altre mostre - o meglio presentazioni di portfolio, di serie di fotografie - è rimasta. Soltanto, mi pare, che Vedere la città possa rendere meglio e più globalmente la mia intenzione. Non è mistero che io sia un adepto del cosiddetto stile documentario, il che in fotografia non significa  che i nostri risultati attestino, certifichino la realtà del soggetto; ma che ne richiamino le caratteristiche, presentandole in modo diretto, senza interventi artistici, e addirittura facendo si che non si avverta la mano dell’artefice. Una sorta di grado zero della narrazione, in cui il narratore scompare e sembra che non esista, che la narrazione si svolga da sè e siano i fatti da soli a presentarsi e parlare.

A ben vedere però - e rieccoci con la visione - il narratore esiste e opera in modo determinante sebbene apparentemente occulto: perciò parliamo di stile.

La definizione, ampia e un po’ sfuggente, si deve com’è noto a Walker Evans, padre fondatore e figura di riferimento in materia: “Un esempio di documento in senso letterale sarebbe la fotografia di un crimine scattata dalla polizia. Un documento ha un’utilità, mentre l’arte è davvero inutile. Perciò l’arte non è mai un documento, anche se può adottarne lo stile”.

Lungo una strada che farei partire da Eugene Atget, che produceva “documenti per artisti” e senza volerlo dedicò a Parigi il più vasto e complesso monumento visivo mai esistito, e a August Sander col suo minuzioso erbario di volti, posture, atteggiamenti e mestieri umani, poi alla New York di Berenice Abbott, ai Fratelli Alinari, industriali di questa maniera di vedere e presentare la visione, al torinese Mario Gabinio che a metà Anni ’30 raccontò il paesaggio, le grandi trasformazioni e la vita della sua città .

E più vicino a noi The New Topographics degli Anni ’70, con Robert Adams e Lewis Baltz. Un immenso immaginario visivo, una maniera di vedere e di conoscere, che si raccorda con l’opera di un Gabriele Basilico, nata con le fabbriche di Milano e successivamente con Bord de mer, che si snoda sin quasi ai giorni nostri mettendo lucidamente e con partecipazione in luce le basi di questo stile in chiave contemporanea.

Da umile epigono di tanti maestri, sulle cui spalle salgo volentieri per cercare di indagare e dar a vedere il mondo, mi sembra che il punto centrale che identifica lo stile documentario non sia assolutamente l’invenzione ricercata

da chi rincorre chimere di artisticità quanto la scoperta di chi guarda, medita e contempla con occhi sinceri e  senza giudizi né pregiudizi con lo scopo di cercare l’ordine nel caos e la bellezza nel quotidiano senza per questo ritenersi nè genio nè creatore.

Fondamentale è il passaggio dal guardare al vedere, la messa in atto dell'immaginazione e della volontà. Il fotografo percepisce le potenzialità della scena, ne è attratto; immagina, costruisce  un'immagine che sarà la veduta, la sua presentazione. Potrà così rendere conto non della realtà fisica che si presenta al suo sguardo ma di quando egli vede. Questo è ciò che viene documentato.

Il risultato finale, la fotografia stampata, è la trascrizione di quanto è stato visto, documentazione si ma di uno sguardo, che diventa uno stile.

                                                                                     G.V.